Si legge nella biografia che egli era un Ufficiale, nato a Trapani nel 1770, geniere e quindi scienziato dell’epoca, arrestato nel 1795 perché in odore di congiura giacobina, attivo nel movimento napoletano dei rivoluzionari del Regno, fra cui Giuseppe Rossaroll e Guglielmo Pepe. Un uomo ed un soldato profondamente immerso nel proprio tempo, tanto che dopo i moti del ‘21 Romey riparò in Francia e all’inizio del 1824 si imbarcò per Alessandria d’Egitto, entrando nel giugno dello stesso anno al servizio di Mehmet Ali Pasha, come ingegnere militare. Si trovò così nel Peloponneso, Filelleno anch’egli ma nelle file dell’esercito di Ibrahim Pasha, eppure in costante contatto con gli altri patrioti italiani che erano andati in Grecia per combattere dalla parte degli insorti, informandoli dei piani di guerra del generale egiziano e contribuendo a sabotare vari attacchi dei turco-egiziani. Fu in questo periodo, nel 1826, quale testimone oculare, che egli redasse le memorie dell’assedio di Mesolongi e, successivamente, della battaglia navale di Navarino.
La pubblicazione del diario manoscritto, nel contempo compendio di dottrina militare e narrazione accurata e curiosa dei fatti e dei luoghi, assurge dunque a testimonianza di un patriota italiano in esilio, consumato dalla fiamma della rivoluzione per l’indipendenza. Sono queste, “rivoluzione” e “indipendenza”, parole ricorrenti nell’epica del tempo
“Una roccia a picco - tutto il giorno a bere il solleone,
a trattenerlo nelle viscere di fronte al mare,
e tu con la schiena appoggiata alla roccia, con il petto
aperto verso il mare, - per metà fuoco, per metà rugiada,
tagliato obliquamente, doppio, in un’unica lotta
per unire l’acqua con la pietra”.
Le parole del grande poeta Ghiannis Ritsos, che qui nacque nel 1909, condensano con l’affascinante sintesi che solo la poesia sa creare la natura ambigua e intrigante di Monemvasià: un promontorio a picco sull’Egeo, che vive della precaria armonia degli opposti: l’azzurro del mare e l’ocra delle tegole, il grigio della montagna e il blu del cielo, la verticalità della roccia e l’orizzontale pianura marina, la scabrosità della pietra e la delicatezza dei fregi bizantini. È la “perfetta armonia degli opposti” di cui parlava il filosofo Eraclito, è l’armonia dell’arco e della lira.
Monemvasià è un palinsesto di stili e di epoche. In poco più di un chilometro quadrato convivono e dialogano millecinquecento anni di storia. Bizantini, Veneziani e Ottomani si sono contesi per secoli questo sperone di roccia, l’hanno decorato di chiese e di edifici sontuosi, di mura e di torri; l’hanno scavato in un labirinto di strade e di vicoli, di scalinate e di vòlte, l’hanno ammirato, adulato, desiderato, conquistato, perduto.
Questo libro si cimenta nella difficile impresa di ripercorrere in sintesi questi venticinque secoli di storia, attraverso i documenti, le testimonianze artistiche, le tradizioni orali, per ricostruire l’immagine di un borgo che si meritò, fra i molti altri, l’appellativo di “Signora del mare”.
Kavafis viaggiò per la prima volta in Grecia nell’estate del 1901 durante un periodo di ferie dal suo lavoro. Il poeta aveva 38 anni e fu accompagnato dal fratello Alèxandros. Viaggiare ad Atene con Kavafis è un’esperienza affascinante. Si scopre innanzitutto che il centro della città, nonostante i centodieci anni trascorsi e i cambiamenti anche drammatici avvenuti nella capitale soprattutto dopo l’arrivo del milione e mezzo di profughi dell’Asia Minore, conserva nelle grandi linee la sua fisionomia. La griglia urbanistica, a forma di grande triangolo isoscele, risalente al tempo del re Ottone è tutt’ora il tratto più evidente di Atene, mentre i grandi palazzi pubblici si presentano ancora al visitatore di oggi come si presentavano anche a Kavafis. I mutamenti maggiori si sono avuti nella zona archeologica, che ai tempi di Kavafis era ancora parzialmente abitata, e nella geografia umana. Molti teatri, caffè e palazzi signorili citati da Kavafis non esistono più, incapaci di sopravvivere allo spartiacque storico del periodo 1922-1949, che di fatto segna l’avvio di un nuovo capitolo nella storia di “Atene capitale” ma soprattutto segna il boom demografico e urbanistico della città.
La cartina allegata alla presente edizione ha, tra l’altro, l’intento di introdurre il lettore a questo duplice percorso tra l’Atene di oggi e l’Atene di ieri, quella descritta da Kavafis. Il gioco dei raffronti costituirà un elemento ulteriore di scoperta per il viaggiatore curioso e desideroso di sperimentare. Vedere Atene con gli occhi di Kavafis, e confrontarla con la propria esperienza della città moderna, conferirà un vigore inatteso all’esperienza ateniese del lettore, alla scoperta di una città dai mille volti, nel contempo culla della civiltà antica e moderna capitale mediterranea.
Al principio della Primavera del 1906, il giovane Tumiati s’imbarca da Brindisi a bordo dello Scilla alla volta della Grecia con l’intento di trovare conferme alla propria concezione artistica ed estetica.
Narrato a tratti con toni da futurista nell’esaltazione delle veloci escursioni in bicicletta, o con accenni patriottici come nella cronaca sportiva in “diretta” dei Giochi Olimpionici intermedi, svoltisi ad Atene (22 aprile – 22 maggio 1906), o con considerazioni filosofiche di tipo nietzschiano sulla guerra e la bellezza. Tumiati conoscitore della lingua greca di cui fa largo uso, si aggira in un territorio utilizzando diversi mezzi di locomozione: attraversa a cavallo il Taigeto, l’Elicona, il Parnaso, viaggia in treno dal Peloponneso ad Atene, descrive gli aspetti dei centri urbani, scoprendo in Tessaglia, la cittadina di Larissa, “la città delle cicogne”; dorme nei vecchi conventi, descrive cibi e bevande, le processioni di Pasqua e gli antichi rituali, rievoca luoghi e vicende della guerra d’indipendenza greca, conversa con pastori, pescatori, contadini, famiglie, giornalisti e diplomatici. Si spinge in Turchia raccontando di una insolita Costantinopoli.
Preziosi i capitoli relativi al Monte Athos in cui entra in contatto coi monaci, annotando della vita, delle funzioni religiose, delle peculiarità architettoniche e artistiche dei monasteri; parimenti è il racconto di una visita ad una Salonicco ancora non appartenente al territorio greco (diventerà greca nel 1912), durante la quale annota le istanze degli irredentisti, i tratti della sua cosmopolita popolazione, l’apprezzabile presenza ebrea e la sua economia che annovera importanti imprenditori italiani come Allatini.
L’antico ed il moderno del paese si incontrano e si scontrano nelle pagine di Tumiati, sorprese, talvolta appagate, spesso dubbiose. Pur cedendo in qualche pagina alla retorica della celebrazione dell’antico, non rinuncia, il Tumiati, a trovare spunto per nuove forme di estetica e di poesia riscoprendo in cose umili, popolari e nella sua natura una forza evocante quella bellezza che il paese, forse ignaro, aveva conservato.
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